Ci sono degli scrittori, che tu vai alle loro presentazioni, li ascolti, e ne rimani affascinato. Hanno un eloquio che ti lascia a bocca aperta. Ti ritrovi rapito. Ti prendono, ti sollevano e ti trasportano in volo tra le pagine delle loro opere, raccontando senza svelare, evocando momenti, emozioni, conflitti. E nel mentre ti spiegano come sono arrivati a usare quelle parole, a narrare quelle vicende. La loro vita, o almeno alcuni momenti significativi, le ansie e le paure. Le letture. Quanta biografia c’è e non c’è. Poi accennano a un filo conduttore nella vicenda (ma non possono dire altro sennò ti rovinano la lettura, e sarebbe un peccato; anzi forse hanno detto già troppo, si scusano), alla simbologia di certi personaggi, certi colori non messi a caso, alla difficoltà di scrivere alcune pagine perché c’è dietro un trauma dell’adolescenza, e hanno come rivissuto il dolore, pagine buttate e riscritte e buttate e riscritte. E i grandi scrittori, gli insegnamenti che ne hanno tratto, cosa rubare a chi. Gli omaggi. Le citazioni. Lo stile volutamente schizofrenico, la ricerca lessicale fuori registro, la scelta dei nomi (i nomi, diomio, quanto contano!). Alcuni meccanismi un po’ sperimentali, è stato un rischio, certo, ma ne è valsa la pena. Il pubblico ha recepito, capito, condiviso. La critica non gl’interessa. Non un ritratto della società. Quella figurati, è impossibile da catturare. Nei grandi romanzieri sì, ma è un altro discorso, non azzardiamo paragoni. Giusto Franzen, ma in piccolo. E comunque qualcosa di più umile, un angolo, ugualmente significativo, importante, mai preso in considerazione, che merita che le parole lo illuminino. In fondo non è questione di voler scrivere, è di doverlo fare.
Ci sono degli scrittori che tu stai lì ad ascoltarli affascinato per due ore, alle loro presentazioni.
Poi leggi il loro libro e ti fa cacare.
E a leggerlo ci metti un’ora e mezza.