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Come a Saigon

Spalanco la porta del bar e il tugurio s’inonda della luce delle 11.29 del mattino. Ne esce un odore di stantio, alcol e tabacco di pessima qualità, con una punta sul finale di gratta e vinci grattati. S’intravede appena, con una mano a proteggersi gli occhi sedimentati nella quasi oscurità, un’umanità di perdenti. Qualcuno dal fondo lamenta un “E chiudi”. Faccio un passo e chiudo, come fossi un addetto alle comunicazioni nel fottuto Vietnam. I miei occhi ci mettono qualche secondo per abituarsi a quel minimo sindacale d’illuminazione; la bolletta sarà ridicola, i promotori di EniGasELuce fuggiranno facendosi il segno della croce, quando provano qui a piazzare i loro contratti. Le uniche fonti di luce sono una fila di faretti anemici che tentano di illuminare il bancone, un televisore arrampicato in un angolo che trasforma in fotoni gli elettroni di una televendita di gioielli scontatissimi ma mai abbastanza da giustificare la loro bruttezza, qualche lampadario sparso qua e là sopra i tavoli lungo la parete e un gruppo di fuochi fatui vicino alla porta del bagno, rigorosamente in stile Luigi XIV. Non ci vuole un occhio di falco, come invece serviva nel fottuto Vietnam per salvare la pelle, per capire il genere di reietti che ha fatto la tana là dentro, alcuni dei quali svicolano e si allontanano come scarafaggi al mio passaggio, temendo di essere pestati o disinfestati. Ci sono un pugno di tossici a vari stadi di tossicità e di nostalgia per gli anni ’80, 3 o 4 alcolizzati cronici, un consulente Mediolanum, un paio di maestre d’asilo, un invertito, qualche allibratore, Luca Carboni e un geometra comunale, oltre ovviamente al barista, che però dev’essere un nano, perché dietro al bancone non si vede nessuno. “Potrebbe essere nel retro”, mi dice questa voce di chissà chi in testa. “Oppure è un nano”, insisto nella mia testa. “Oppure dorme sul pavimento del bancone”, ribadisce, “Oppure è un nano” penso io, “Oppure è collassato sbronzo”, rilancia, “Oppure è un nano”, “Oppure è al cesso”, “Oppure è un nano”, “Oppure è piegato a sistemare della roba”, “Oppure è un nano”, “Va bene, ci rinuncio, è un nano, fai come ti pare”.
Arrivo al bancone, mi siedo su uno sgabello che ne ha viste troppe e dal lato sbagliato e lo sguardo incazzato di un nano che pare volermi dire “Beh, cosa ti aspettavi, che fossi nel retro?” mi inchioda dal basso come un’imboscata nel fottuto Vietnam. “Che bevi?”, chiede nel suo falso accento di Moria. “Un Long Island”, rispondo in Morse. “Senti amico, questo è un locale serio, i liquidi li teniamo separati. Se vuoi birra, ti do birra, se vuoi whiskey, ti do whiskey, se vuoi vodka, ti do rum, se vuoi Amaro del capo, ti do Montenegro, se non vuoi niente, ti do il conto”. “Per me allora un whikesy, e per la signorina qui dello scotch”. La tizia accanto a me sta infatti cercando di riappiccicarsi le sopracciglia finte, senza grandi risultati, e la gamba di legno. Mi pare di averla già vista, forse al Museo di arte contemporanea, esposta, ma evito di chiederglielo, impegnata com’è nel rimontaggio. “Senti capo – dico al barista – devo chiederti una cosa”. “Come fai a sapere il mio nome? Sei uno sbirro?”. “Ti chiami Capo?”. “Di cognome. Di nome Senti. Chi cazzo sei? Che cazzo vuoi?”. “Non ti agitare Capo, non sono uno sbirro. Sono un investigatore privato. Hai mai visto questo tizio” e gli mostro la foto. “Certo che l’ho visto, è il presidente della repubblica”. “Ops, sbagliato foto, scusa. Eccolo. Si chiama Bernie Allotropico, è un Cattolico Ateo Teleologico”. “Un fottuto CAT, adesso capisco quegli strani discorsi sulla cromatura di Gesù”. “Quindi lo conosci”. “Ha passato qui una settimana a sbronzarsi da mattina a sera con del Pernod. Poi un pomeriggio ha detto che aveva sete e se n’è andato. Mai più visto”. “Qualche idea su dove possa essere andato”. “A bere”. “Ottimo. Ecco i soldi del whiskey”. “Quello è un buono per una enciclopedia in cd-rom”. “Scusa, sbagliato tasca. Ecco qui. Stammi bene Senti Capo”. Mi avvio ad abbandonare quel posto fetido. Quando sono sulla porta il nano, senza farsi vedere, chiede: “Che cosa ha fatto, ‘sto Bernie Allotropico?”. Mi giro lentamente guardando la sua mano a forma di becco che sbuca da sotto il bancone e mi fissa. “Ha ucciso il Papa”, gli dico. “Ma il papa è vivo”. “Non ancora per molto, Capo. Non ancora per molto”. Supero la soglia incespicando, come nel fottuto Vietnam, e mi lascio quella piccola Saigon della società alle spalle, spero per sempre.

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