Forse non tutti sanno che, oltre a essere un geniale pittore, scultore, scrittore, ingegnere e inventore, Leonardo da Vinci fu anche – come spesso capita a quelle menti vulcaniche che eruttano idee a ritmo continuo e che mal sopportano la lentezza, secondo loro, degli ingegni altrui – un gran rompicoglioni.
Così, non è poi completamente da escludere che a Firenze, intorno al 1480, si possa essere svolto quanto segue.
L’ometto avvicinò lo sgabello al muro, ci salì, e da lassù sbirciò attraverso la finestrella dalle grosse inferriate. Attento a non esporsi troppo, controllò ogni angolo della piazzetta che si apriva proprio di fronte alla porta del suo ufficio, mettendo bene a fuoco tutti quelli che l’attraversavano. Su chi era fermo non si attardava nemmeno un istante, perché il suo nemico – tale ormai si poteva definire – non stava mai fermo. Mai.
Assicuratosi che non fosse in vista, scese dallo sgabello e lo ripose al solito posto, davanti al tavolone pieno di scartoffie. Lì sedevano gli utenti, perché chi sta scomodo si sbriga. Per lui, invece, faceva bella mostra dietro al tavolo una seggiolona coi braccioli che lo faceva sembrare ancora più minuto, quando ci stava sopra, ma che era di una comodità senza pari, grazie anche al grande cuscino ricamato che sua moglie gli aveva regalato quando era diventato unico responsabile dell’ufficio brevetti.
Prima di prendere posto e immergersi tra le pratiche, sebbene l’impulso fosse come ogni giorno quello di tenere serrata l’entrata e non aprire al pubblico, si avvicinò all’ingresso e lentamente, senza fare rumore, girò la grossa chiave e fece scattare la serratura. Il clic non si era nemmeno ancora spento, che il leggero burocrate fece un volo di un paio di metri, perché la grande porta gli aveva fatto da catapulta aprendosi fulminea con inaudita potenza. Steso a terra e dolorante, con già un bernoccolo che gli cresceva in fronte, l’ometto inquadrò lo specchio della porta, dove una gigantesca figura bloccava quasi tutta la luce proveniente dalla bella giornata di sole che c’era fuori. Eccolo lì, il nemico. Leonardo da Vinci.
«Quest’ufficio dovrebbe aprire alle nove, e sono di già le nove e un quarto!», disse Leonardo tutto infervorato.
Il responsabile, tirandosi su e spolverandosi, vide il gigante sovrastarlo, con addosso una palandrana tutta macchiata di chissà cosa, strappata in più punti, e con in faccia degli occhi rossi spiritati e una barba impazzita in vari punti.
«Allora? Come si spiega questo fatto? Son le nove e un quarto, quasi venti!», disse Leonardo.
«Le nove, i venti, i quarti? Ma di che parla?», disse l’ometto tutto stizzito, dirigendosi verso la sua seggiolona.
«Un nuovo metodo che ho inventato giusto venendo qui, per suddividere le ore e indicare il tempo della giornata. Se mi dà un foglio e dell’inchiostro butto giù due righe e registro pure questo, oltre agli altri ventitré che mi sono balenati alla mente stanotte», disse Leonardo sedendosi sullo sgabellino, su cui stava come può stare un’aquila reale offesa su un rametto di pesco.
«Messere, messere, santo cielo», disse l’ometto già sudando, «lei c’è bisogno che mi dia tregua. Si prenda una pausa, delle ferie. Oppure inventi e ingegni, ma metta da parte, scremi, selezioni, e poi mi viene qui magari ogni quindici giorni, non dico un mese, e deposita. Venir qui mattina e pomeriggio, insomma!».
«Verrei la notte, se foste aperto! Ma lei niente, da dipendente pubblico mi fa resistenza a questa innovazione. Le idee arrivano come frecce scagliate da un arciere nascosto nei cespugli della mente, e quando arrivano c’è da correre a rivendicarle, perché fuori da quella porta ci sono altri cerebri all’opera, e sia mai che mi faccio fregare un’invenzione», disse Leonardo poggiando i gomiti sul tavolone e inclinandolo leggermente per il peso.
L’ometto lo guardò disperato, asciugandosi la fronte con un grosso fazzoletto rosso, e disse: «La prego, Leonardo, non le sto dietro. Guardi questa pila di documenti: sono tutte pratiche per suoi brevetti. E questa qui? Lo stesso. E quella lì in terra? Uguale! E non parliamo dell’armadio. Non ce la faccio, pure lavorandoci tutto il giorno senza tregua. Da un po’ mi porto anche il lavoro a casa, trascuro mia moglie, i miei figli, lo struzzo».
«Ha uno struzzo?», disse Leonardo incuriosito.
«Sì», disse l’ometto rifiatando.
«Le dispiacerebbe prestarmelo, un giorno? Ho alcune teorie che vorrei verificare», disse Leonardo prendendo rapidamente un appunto con quella sua solita scrittura strana.
«Verificare… cioè? È pericoloso?», disse l’impiegato.
«Macché, macché», disse Leonardo continuando a scrivere rapidamente su un foglio, «sto facendo degli studi di aerodinamica, avrei bisogno di proietti animali per testare le resistenze del piumaggio. Ma non stia a preoccuparsi, suona peggio di quel che è. Tornando a noi, ecco i brevetti che vorrei registrare oggi. Ventitrè e… Ventiquattro! Finito».
Vedendo originarsi davanti a sé un altro pilastro di scartoffie leonardesche, l’impiegato ammutolì tremante, poi si sciolse in un pianto dirotto, singhiozzando sonoramente e sputacchiando frasi incomprensibili che avevano a che fare con la pietà, lo stress lavorativo, la carriera bloccata lì per ingolfamento di pratiche, la dignità del lavoratore pubblico, l’accanimento delle intelligenze sulle creature miti e mediocri.
Davanti a quella scena Leonardo cedette alla compassione. Lentamente poggiò una mano sul braccio del piangente, cercando di consolarlo: «Su, non faccia così, la prego. Le prometto che tenterò in ogni modo di porre un freno al fuoco che mi brucia in testa, che scarterò, valuterò meglio le idee, rinuncerò a brevettarle, se non sono almeno geniali».
Leonardo fissò con intensità l’impiegato dell’ufficio brevetti e disse, quasi sottovoce: «Ora però, per favore, smetta di piangere. Le sue lacrime mi fanno… mi fanno… », e mentre stentava a continuare, come preso da una grande emozione, allungò l’altra mano e prese un foglio bianco, su cui iniziò a scrivere rapidamente, senza nemmeno guardare. Allora continuò: «Mi fanno pensare che… se fossero raccolte, e sottoposte a certi processi particolari, le si potrebbe purificare, elaborare, e infine utilizzare come ottimo rimedio per certi rossori e per certe infiammazioni dell’occhio!». E finito di scrivere, sbatté il foglio appuntato sul tavolone e gridò: «Venticinque!».